Nei paesi dove è stato avviato un processo inclusivo delle persone con SD si sono ottenuti dei risultati tutto sommato soddisfacenti.

Certo come in tutte le cose si può sempre fare di meglio, ma a volte le possibilità limitano lo sviluppo dei processi evolutivi per quanto essi possano essere importanti e vantaggiosi.

Dopo aver raccolto in giro per l'Europa e per il mondo le soluzioni positive dell'inclusione dove questa è stata applicata, ci sentiamo confortati dai risultati e propendiamo sicuramente per questa soluzione.

Inclusione che però per poter funzionare in modo corretto deve iniziare al punto giusto della vita dell'individuo, praticamente dal primo giorno di vita, se inizia dopo qualche anno è già troppo tardi sono stati persi anni preziosissimi.

Già perché l'inclusione non dipende solo dai supporti sociali, e dalla scuola, queste strutture anche se iniziano molto precocemente la loro attività, arrivano sempre e comunque dopo la famiglia che con la sua impostazione e la sua predisposizione può influenzare in modo determinante l'evoluzione del neonato con SD.

In poche ma semplici parole, il neonato con SD è figlio di sua madre e suo padre e NON dello stato, e se i genitori pensano che sia poi compito dello stato risolvere qualsiasi errore di impostazione commettono un errore clamoroso.

Terminato il periodo scolastico che può durare più o meno a lungo a seconda delle caratteristiche individuali, si apre un momento della vita piuttosto complessa che è quello dell'inserimento nel mondo del lavoro.

Già ma quale mondo del lavoro?

Avete mai visto persone con SD che prendono l'autobus, scendono, in centro città o nella zona industriale dove lavorano, si dirigono verso una fabbrica, o un ufficio, o un esercizio commerciale, magari fermandosi al bar a prendere un cappuccino e una brioche?

No questa è una procedura riservata ai normodotati, le persone con SD seguono procedure diverse, la maggior parte delle volte vengono caricati in un pulmino e portati a destinazione che di solito è un laboratorio protetto, svolgono la loro attività che può essere più o meno lunga, vengono ricaricati sul pulmino e riportati a casa.

Ma che cosa significa laboratorio protetto?

È un luogo dove vengono svolte attività principalmente manuali sotto la supervisione di una o più persone normodotate: dove normalmente le persone con SD svolgono attività di preparazione, rassetto e pulizia, come nelle cucine, o nelle falegnamerie, o nelle mense di istituti sociali.

A volte lavorano sulla composizione di pagine che andranno poi in stampa in aziende editoriali, o pubblicate su siti internet, a volte cablano circuiti elettrici per aziende che producono apparecchiature elettriche, o imbustano e affrancano corrispondenza di massa per aziende di marketing.

Ovviamente abbiamo citato solo alcuni dei mestieri che si svolgono nei laboratori protetti che ovviamente sono molti di più e abbracciano svariati settori.

In conclusione le persone con SD svolgono tante attività di supporto a lavori più complessi che restano però sotto la responsabilità dei normodotati.

Certo non tutte le persone con SD sono in grado di svolgere attività complesse con gradi di responsabilità importanti, a volte le loro capacità sono fortemente limitate su uno o più fronti dato che possono essere fortemente ipovedenti, fortemente ipotonici, poco coordinati, con ritardi cognitivi più o meno importanti, ma alcuni di loro, poco colpiti dall'azione negativa della maggior quantità di materiale genetico, con la giusta preparazione e il giusto addestramento, potrebbero essere in grado di assumere attività con più responsabilità e vivere una vita più autonoma.

Queste persone con SD e con buone possibilità evolutive, vengono però incanalate in un universo semplificato che viene ritenuto più adatto alla maggior parte di loro, un universo protetto, ma separato dal resto della società.

E' emblematico il servizio andato in onda il 1 agosto 2017 in prima serata sulla RSI LA1 che al minuto 22:05 parla di un villaggio di una fondazione ginevrina dove vivono persone con ritardi cognitivi in piena autonomia, chi accudisce gli animali da fattoiria, chi lavora negli orti, chi si occupa delle pulizie e del mantenimento dell'efficienza del villaggio.

Sembra una situazione idilliaca e ideale se non fosse che hanno dovuto chiedere un autobus che permettesse loro di frequentare i villaggi vicini perchè le autorità volutamente o no non avevano pensato che potesse nascere questa esigenza.

Certo la fondazione ginevrina proprietaria degli immobili e del territorio poteva esercitare l'assistenza ai disabili solo in quell'area ma che non siano nemmeno stati sfiorati dall'idea della necessità di mezzi pubblici per permettere ai loro assistiti di potersi spostare nei villaggi vicini ci fa pensare che quell'isolamento era voluto.

In poche parole erano disabili concentrati nel villaggio di Aigues-Vertes e isolati dal resto della regione, questo tipo di sistemazione è da sempre definita "Ghetto" che è l'antitesi dell'inclusione sociale a cui noi propendiamo dove i disabili vivono la loro vita in mezzo a tutti gli altri.

Anche in Ticino la tendenza è quella di concentrare nelle aree a disposizione delle associazioni e delle fondazioni i disabili fisici e/o cognitivi perchè organizzativamente parlando è più facile erogare le loro prestazioni, ma se i disabili vivono permanentemente in queste aree si generano così involontariamente dei piccoli ghetti.

Dovremmo pensare ad una assistenza distribuita sul territorio in modo da permettere ai disabili di vivere in mezzo alla società reale, certo questa soluzione potrebbe essere più costosa in termini economici ma socialmente parlando è sicuramente più umana.

Questa soluzione è già adottata per le persone anziane e per i disabili fisici per cui le stesse strutture potrebbero assistere anche i disabili cognitivi.

Come già evidenziato nell'articolo “Reazioni Famigliari”, quando inaspettatamente arriva in famiglia un neonato/a con Sindrome di Down è un forte trauma.

Purtroppo non ci sono soluzioni possibili e la strada è subito in forte salita, ma se può consolare, per essere buoni genitori di un bambino/a con trisomia 21 bisogna avere una marcia in più e una forza d'animo superiore alla media.

Infatti il primo passo in assoluto che è anche quello più difficile, è quello di “accettare” in famiglia il nuovo arrivato che secondo l'immaginario collettivo è diverso e questa nascita viene interpretata spesso come un fallimento.

Questa accettazione è il primo passo dell'inclusione del nuovo arrivato/a perchè se accettato sarà parte globale della famiglia, altrimenti sarà probabilmente integrato, cioè vivrà in famiglia, ma ne farà parte solo in modo più o meno limitato.

Accettare in famiglia un bimbo con sindrome di Down, è un atto di grande umiltà perchè si dovranno sopportare con il sorriso sulle labbra gli sguardi insistenti, curiosi e a volte morbosi della gente che non ha ancora assimilato la cultura del diversamente abile.

E' un atto di grande umanità perchè per far si che il nuovo arrivato sviluppi le sue migliori potenzialità, dovrà essere amato di più di quanto sarebbe amato se fosse normale.

E' un atto di grande generosità perchè questo bimbo/a dovrà essere accudito e seguito più del dovuto, a lungo e magari per tutta la vita.

Il famoso proverbio che dice “Se a te tocca la strada in salita è perchè tu sei destinato ad arrivare in alto”, in questo caso è di una verità sconcertante.

Queste parole possono spaventare inizialmente, ma con il giusto approccio tutto diventa più agevole e con la giusta serenità e calma si otterranno degli ottimi risultati.

Inizialmente se si rileva e si capisce che si fa fatica ad accettare il bimbo/a con sindrome di Down, non bisogna avere timore di farsi aiutare da uno psicoterapeuta, esperto di terapie famigliari sull'accettazione di questi bambini e avviare subito un programma psicoterapico.

Questo è l'ostacolo più difficile da superare e bisogna superarlo, per il bene dell'equilibrio famigliare e di conseguenza per il bene del bambino.

Il bimbo/a crescendo necessiterà di terapie per aiutarlo a camminare, a muoversi in modo coordinato, a parlare e quant'altro.

Ogni terapia che sarà elargita dai vari enti competenti non sarà quantitativamente sufficiente per una questione di costi, anche se poi questi enti vanno in televisione a dire che fanno molto, ma che i genitori vorrebbero sempre di più e che non sono mai soddisfatti.

In parte hanno ragione perchè i genitori vorrebbero che questi enti si sostituissero a loro, cosa che non è ovviamente possibile.

Ma in parte hanno torto perchè una terapia di 2 Unità Didattiche a settimana che corrispondono a 1,5 ore di tempo reale sono veramente poche per ottenere dei risultati importanti.

Questo è il motivo per cui la famiglia deve integrare il lavoro delle terapiste in loro assenza, e le terapiste devono dare le giuste direttive ai famigliari, in modo che questi possano proseguire nelle terapie.

Una cosa è certa, il bambino passa più tempo in famiglia che con le terapiste e/o le insegnanti di supporto fornite dalle strutture di assistenza o di scolarizzazione, per cui è fondamentale che la famiglia prosegua il lavoro delle terapiste e/o delle insegnanti.

Il bambino non è come un televisore che terminato il programma lo si spegne e lo si riaccende magari una settimana dopo, quando si farà la prossima seduta terapeutica, il bambino continuerà a vivere e a giocare e dovrà continuare a lavorare con i propri famigliari, per potersi evolvere al meglio.

Ecco perchè l'accettazione di un bimbo con SD in famiglia è fondamentale, perchè la famiglia dovrà lavorare con lui e per lui e se lo farà con amore e serenità tutto sarà impegnativo ma fattibile, mentre se non ci sarà l'accettazione tutto sarà difficile e tutto diventerà una scusa per lasciare il bimbo a se stesso con la conseguente grave minore evoluzione.

Sembrerà strano, ma il lungo cammino per l'inclusione sociale, comincia proprio con l'inclusione in famiglia.

La Scolarizzazione Inclusiva è stata adottata da diversi paesi europei ormai da diversi anni, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti e cioè che diverse persone con Sindrome di Down, raggiungono traguardi ambiti come: un diploma, o una maturità o addirittura una laurea, questo fa si che possano anche ambire ad avere un lavoro responsabile, vivere in autonomia e a volte mettere su famiglia.

La scolarizzazione Inclusiva ribalta di 180 gradi l'attuale sistema di scolarizzazione degli alunni speciali.

Infatti non è più l'alunno speciale che va alla scuola speciale, bensì è la scuola speciale che va insieme all'alunno speciale, nella classe di alunni normali.

Quindi l'insegnante di scuola speciale, segue l'alunno speciale, nella classe di alunni normali, diventando così un insegnante di sostegno.

 

Viene da pensare che così facendo si raddoppieranno o a triplicheranno i costi, ma non è così, dato che già oggi il rapporto tra insegnanti e alunni nella scuola speciale è di circa 2 insegnanti per tre alunni speciali, quindi se mettiamo in una classe inclusiva un insegnante di sostegno per due alunni speciali i costi aumenterebbero di 1/3 circa.

L'aumento dei costi avverrebbe però solo sul corpo insegnante della scuola speciale e non sull'apparato di coordinamento che rimarrebbe inalterato, anzi può essere ridotto se si trasferiscono alcune responsabilità dalla scuola speciale alla scuola normale, dato che gli alunni speciali sono ormai inclusi nelle classi delle scuole normali.

Questa soluzione potrebbe compensare in parte il piccolo maggior costo del corpo insegnanti di scuola speciale.

 

Qualcun altro potrebbe pensare che un alunno speciale potrebbe rallentare la formazione degli altri alunni normali, senza rendersi conto che ogni alunno, ha un suo personale livello di intelligenza e che apprenderà tanto quanto la sua intelligenza e la sua disponibilità allo studio gli permetteranno di apprendere.

In una classe di 20 alunni, ci saranno alcuni alunni molto intelligenti, molti alunni di intelligenza media e alcuni alunni con una intelligenza al di sotto della media.

Quindi già ora, gli alunni più intelligenti, vengono penalizzati dagli alunni con intelligenza media e al di sotto della media, ma proprio perché hanno una intelligenza superiore agli altri, troveranno il modo per impegnare adeguatamente la loro maggior intelligenza, magari al di fuori dell'ambiente scolastico.

 

Ciò che invece è importante, per far si che gli alunni speciali possano progredire e apprendere il più possibile, è la presenza dell'insegnante di sostegno che deve essere di una quantità di ore rilevante.

Nel Canton Zurigo dove l'inclusione è attiva dal 2001, inizialmente, probabilmente per risparmiare, hanno pensato di suddividere le ore di un insegnante di sostegno su più alunni speciali, distribuiti in diverse classi, questa soluzione ha fatto si che le ore di presenza dell'insegnante di sostegno presso un alunno speciale fossero poche e il risultato di questa soluzione è stato poco confortante.

Infatti sono corsi ai ripari, mettendo due alunni speciali in un unica classe, seguiti da un insegnante di sostegno per un tempo doppio e pare che i risultati siano in netto miglioramento.

 

Nel Canton Grigioni l'inclusione è recente cioè da quando è stata approvata la legge sull'inclusione scolastica circa nel 2013 e pare che questa evoluzione sociale sia stata affrontata con più attenzione, fornendo i giusti supporti sia agli insegnanti di ruolo che a quelli di sostegno oltre che alle famiglie e agli alunni, dalla scuola dell'infanzia alla scuola elementare e alla scuola media.

Terminato il ciclo scolastico obbligatorio, quando poi il ragazzo con esigenze speciali dovrebbe frequentare le scuole professionali, necessita un trasferimento di un paio di anni nell'area dei Grigioni di lingua germanica per poter trovare qualche soluzione, oppure appoggiarsi ai cantoni limitrofi, dove però il concetto di inclusione non è ancora stato acquisito e quindi si ritorna fondamentalmente ai laboratori protetti, ad esempio le valli Mesolcina e Calanca si appoggiano al Canton Ticino che non è inclusivo e di conseguenza niente scuole professionali disposte ad accogliere gli alunni speciali. 

 

Anche nei paesi con l'inclusione ormai in funzione da molti anni, si sono resi conto nel tempo che gli alunni speciali devono poter essere supportati dall'insegnante di sostegno, per un congruo quantitativo di ore giornaliere, altrimenti i risultati sono deludenti.

In poche parole la strada dell'inclusione degli alunni speciali nelle scuole normali, visto il rapporto costi/benefici è sicuramente da perseguire, ma deve essere sviluppata in modo efficiente, abbandonando le paure e gli stereotipi del passato riguardo a questi bambini e in special modo riguardo ai bambini con Sindrome di Down.

Purtroppo c'è un aspetto negativo, ed è il punto di partenza, cioè l'anno scolastico Zero, cioè l'anno del cambio da scuola integrativa a scuola inclusiva che inevitabilmente, genererà purtroppo alunni speciali con scolarizzazione di seconda classe che sono quelli che hanno frequentato le scuole speciali per molti anni e fino a quel momento e che quindi non avranno tutti i vantaggi che avranno gli alunni speciali che usufruiranno della scolarizzazione inclusiva sin dall'inizio.

 

Sono circa 50 anni che nel Cantone si parla di "Integrazione" e ultimamente di "Inclusione" delle persone differentemente abili.

Tralasciamo le varie disabilità e concentriamoci sulle persone con Sindrome di Down che sono il focus della nostra Associazione.

Non siamo alla ricerca di colpe né di colpevoli, ma attraverso l'analisi della situazione attuale e confrontandola con altre realtà, cercheremo di capire se ci sono delle differenze negative e se queste possono essere recuperate oppure no.

La reale inclusione sociale delle persone affette da Trisomia 21 nel nostro Cantone si può determinare abbastanza rapidamente ponendoci alcune domande:

  1.  Quante persone con Sindrome di Down si sono sposate e hanno creato una famiglia? La famiglia intesa come marito e moglie dato che i maschi con Sindrome di Down sono al 99,99% sterili.
  2. Quante di loro hanno costruito una vita in piena autonomia? Ovvero vivono da soli fanno la spesa, si comperano l'abbigliamento, cucinano, vanno al lavoro e tutto ciò che comporta una vita autonoma.
  3. Quante di loro hanno un lavoro non protetto? Cioè che hanno un lavoro da svolgere con un minimo di responsabilità personale e indipendenza presso un datore di lavoro che non sia una associazione di assistenza, o apparati di amministrazione pubblica, o il bar del fratello, o la panetteria della zia.
  4. Quante di loro hanno conseguito una laurea?
  5. Quante di loro hanno conseguito un diploma di maturità o anche solo professionale?

La risposta a tutte queste domande è zero o con valori molto vicini allo zero, ognuno può pensare quello che ritiene più opportuno e che gli fa più comodo ma la realtà è che abbiamo una serie di zeri tondi tondi.

Quindi il lodevole sforzo per dare la migliore assistenza sociale a queste persone, permette loro di vivere degnamente e serenamente, ma non permette loro di "Includersi" nel tessuto sociale come succede a tutte le persone normali e sono a tutti gli effetti dei disadattati della società reale.

Questa intervista ai responsabili della Fondazione Diamante e della residenza anziani Casa San Rocco, apparsa sulla trasmissione della RSI LA1 "il Quotidiano" edizione del 16.11.2016 intitolata "Progetto per i disabili anziani", mette in risalto come queste persone ormai in età avanzata, non riescono ad inserirsi in una normale struttura per anziani senza l'aiuto di assistenti esperti che ne facilitino l'integrazione.

Qualcuno potrà obiettare che anche altrove è più o meno così.

Ebbene no, siamo andati in giro per l'Europa e per il mondo a vedere cosa succede in altre realtà che hanno anche meno possibilità economiche della nostra e siamo rimasti sorpresi dal fatto che tutte le domande sopra riportate hanno delle risposte con numeri reali e diversi da zero.

Direttori d'orchestra, musicisti, ballerini, meccanici, laureati in economia, un esercito di addetti al servizio ai tavoli di ristoranti alberghi bars, etc.

Come è possibile questo divario?

E' chiaro che durante il percorso qualche cosa non ha funzionato, ed è un percorso che comincia molto lontano, in primis dalla famiglia che deve accettare il bambino con Sindrome di Down.

Immediatamente dopo interviene l'Assistenza delle strutture cantonali predisposte all'aiuto di questi bambini.

Poi il poderoso apparato di scolarizzazione del Cantone che impegnerà questi bambini fino all'età adulta.

E infine l'apparato cantonale o privato che prepara questi giovani ad un mestiere o una specializzazione con il successivo inserimento nel mondo del lavoro.

Rimandiamo agli articoli successivi una analisi più approfondita di questo lungo percorso.